ROCCABIANCA Un paese da leggere in dialetto
Presentazione del Dialetto Roccabianchino di Angelo GIL Balocchi
La “fisionomia esistenziale” di un certo luogo è determinata in misura decisiva anche e soprattutto dal suo dialetto, non meno di quanto essa possa scaturire dalle caratteristiche geografiche, urbanistiche, storiche e ambientali in genere.
Anzi, il dialetto non è soltanto l’indubbio testimone del formarsi storico di una comunità, ma ne è a suo modo uno dei “motori costruttivi”. In questo senso, anche per il piccolo abitato di Roccabianca, le parole del dialetto da sempre qui parlato sono meritevoli di attenzione al pari di ciascun mattone della rocca, di ogni arcata dei portici di piazza Minozzi, di tutte le relazioni umane intercorse nel tempo in paese, di qualsiasi solco arato nei secoli sul terreno dai contadini del posto.Parlare e vivere si confondono in una amalgama indifferenziata che nel suo insieme ha come esito la costruzione di un senso della collettività condiviso. Per questo, anche il dialetto di Roccabianca è una chiave intima di lettura della vita di questo minimale luogo del mondo, testimone anch’esso di come parlare e vivere non siano nient’altro che le due facce in perenne dialogo di una stessa medaglia, nel rinnovamento continuo fra una “testa e una croce” che si scambiano un quotidiano e vicendevole fior di conio, sempre arricchito dal riflettersi di una parte (il dialetto) sull’altra (la vita). E viceversa.
Se gli umani amano così tanto le parole, non è solo perché nel linguaggio possono trovare l’immediatezza di un codice utile allo scambio comunicativo. Ovviamente anche questo aspetto ha la sua rilevanza fondamentale.
Ma se gli umani si sentono spesso una cosa sola con le parole, è soprattutto perché queste regalano il più intenso mezzo per trasportare al di fuori dell’animo tutto ciò che parrebbe insopportabile lasciare sacrificato a un tale isolamento.
L’atto del parlare non sa dire dunque soltanto “pane al pane e vino al vino”. Può arrivare a dire anche, ad esempio, “cuore al pane e vino al mondo”.
Questo accade nei dialoghi, nei pensieri e nelle scritture più straordinarie, quando le parole calano le loro reti in acque di maggiore profondità, al di sotto del pelo di superficie su cui galleggiano i significati diretti e comuni dei vocaboli, andando a pescare laggiù, vastità di senso inusitate.
Detto in altro modo: la parola sa essere non solo contenitore di informazioni, ma fortunatamente sa espandersi verso una duttilità poetica e una versatilità fantasiosa, che non possono trovarsi in nessun altro luogo se non nella dimensione della assoluta libertà creativa del pensiero. Con le parole facciamo affiorare le più intime componenti di noi stessi, quelle preziosità del sentire degne di andarsi a fondere con contributi simili, provenienti dalla sensibilità altrui. La parola è il contratto di solidarietà più intenso che due o più persone possano stipulare fra loro: in questa prospettiva la parola è il veicolo comunitario per eccellenza.
Cosa fanno, non a caso, due innamorati, quando sentono il linguaggio ordinario non più sufficiente a rendere conto dello straripare dei propri sentimenti?
Si inventano parole nuove, quelle adatte a tanta urgenza di raccontare, in modo che il senso di unione e di fusione reciproca venga reso vicendevolmente riconoscibile con un proprio gergo privato, espressioni “cifrate” che fissino nell’unicità del dire, quasi un escludersi dal resto del mondo, per rifondare il mondo nuovo e circoscritto della passione condivisa.
Qualcosa di simile accade anche in una piccola compagnia di amici, o in una famiglia, oppure in ogni altra forma di gruppo sociale più o meno numeroso: l’invenzione della parola, come potente strumento di affermazione della parte di mondo e di esistenza che si è orgogliosi di stare creando insieme.
Ed è questo in fondo lo stesso “meccanismo” alla base in particolare della formazione dei dialetti.
Parlare, ascoltare e intendersi in dialetto significa affermare: “…Io riconosco voi, certo, ma allo stesso tempo sento il modo in cui voi davvero mi capite…”.
Parlare un dialetto vuol dire scambiarsi fondamentali porzioni d’esperienze di mondo, che ciascun parlante sente quasi come avesse contribuito a rendere vere, battezzandole insieme alla comunità più o meno estesa di cui fa parte.
Tutte queste considerazioni si fanno interessanti e particolari, se tarate sul punto di vista, seppur minimale, di una realtà linguistica come quella del dialetto di Roccabianca, nel suo genere una sorta di unicum nell’ambito del panorama delle parlate locali parmensi.
Il dialetto di Roccabianca è unico per tre motivi principali: è espressione singolare di una specie di “enclave” linguistica dalle sfumature lombarde, in territorio emiliano; è conosciuto ormai da sole poche centinaia di parlanti; e infine, ma non ultima motivazione per importanza, nel suo storico semi-isolamento dettato dalle fattezze geografiche del luogo, Roccabianca è stata nel tempo fucina di originalità del parlare e di una vivacità semantica che val la pena di essere raccontata.
Se questi tratti peculiari sono stati purtroppo anche penalizzanti in ordine a mancate occasioni di sviluppo economico e territoriale, per altro verso hanno dato adito all’auto-generazione di una sorta di laboratorio linguistico di paese, nel quale la fantasia dell’isolamento dal mondo ha saputo spesso sfociare in una vera e propria originalità inimitabile delle caratteristiche espressive locali.
La particolarità nell’uso di certi suoni “rari”; l’insistere sulla conformazione di parole dalla pronuncia piuttosto ardua, ma a suo modo ricercata e dotata di una ritmicità di valore; la varietà espressiva ricca di coloriture e intensità, non di rado portatrici di guizzi di notevole originalità inventiva…sono questi gli ingredienti minuti che fanno del dialetto Roccabianchino un caso linguistico interessante da indagare.
Non è un caso se a Roccabianca, il linguaggio si sia amalgamato spesso alle vicende della quotidianità di paese, anche attraverso le figure di pittoreschi personaggi che nel motto di spirito, nell’arguzia del gioco di parole o persino nella brillantezza involontaria della creatività naif scaturita dallo strafalcione, hanno dato vita lungo la storia di questo piccolo posto, a un vero e proprio “habitat linguistico” dalla vivacità del tutto singolare.
Per tutte queste ragioni, siamo convinti che un “excursus narrativo” dedicato alla pur umile vicenda linguistica di Roccabianca (anche se per forza di cose ovviamente frammentario e ricostruito lungo la rievocazione di piccoli lampi estemporanei della memoria) possa risultare interessante non solo per chi ha già qualche familiarità con la realtà del piccolo paese della Bassa, ma anche per ogni appassionato della magia delle parole, della forza del linguaggio, della fascinazione della lettura.