Dialetto di Sorbolo – Sòrbel

PAOLO TERENZIANI La nostalgia del vernacolista äd Sòrbel

PERCHÈ SCRIVO IN DIALETTO
In un’epoca come la nostra, in cui tutti corriamo verso la globalizzazione, scrivere in dialetto può sembrare anacronistico. Preservare ciò che caratterizza e, se vogliamo, isola, e trascurare ciò che dovrebbe unire, è sempre meno comprensibile. Io credo invece che le cose non stiano proprio così. Quanti tentativi di “globalizzazione” ha conosciuto la Storia? L’Impero romano, il cristianesimo, il comunismo: chi più ne ha più ne metta! Tuttavia ogni tentativo di universalizzazione politica, religiosa o linguistica è fallito. Allora io vorrei… LEGGI TUTTO


Le 12 ballate


ROCCABIANCA Un paese da leggere in dialetto

ROCCABIANCA Un paese da leggere in dialetto
Presentazione del Dialetto Roccabianchino
di Angelo GIL Balocchi

La “fisionomia esistenziale” di un certo luogo è determinata in misura decisiva anche e soprattutto dal suo dialetto, non meno di quanto essa possa scaturire dalle caratteristiche geografiche, urbanistiche, storiche e ambientali in genere.

Anzi, il dialetto non è soltanto l’indubbio testimone del formarsi storico di una comunità, ma ne è a suo modo uno dei “motori costruttivi”. In questo senso, anche per il piccolo abitato di Roccabianca, le parole del dialetto da sempre qui parlato sono meritevoli di attenzione al pari di ciascun mattone della rocca, di ogni arcata dei portici di piazza Minozzi, di tutte le relazioni umane intercorse nel tempo in paese, di qualsiasi solco arato nei secoli sul terreno dai contadini del posto.Parlare e vivere si confondono in una amalgama indifferenziata che nel suo insieme ha come esito la costruzione di un senso della collettività condiviso. Per questo, anche il dialetto di Roccabianca è una chiave intima di lettura della vita di questo minimale luogo del mondo, testimone anch’esso di come parlare e vivere non siano nient’altro che le due facce in perenne dialogo di una stessa medaglia, nel rinnovamento continuo fra una “testa e una croce” che si scambiano un quotidiano e vicendevole fior di conio, sempre arricchito dal riflettersi di una parte (il dialetto) sull’altra (la vita). E viceversa.

Se gli umani amano così tanto le parole, non è solo perché nel linguaggio possono trovare l’immediatezza di un codice utile allo scambio comunicativo. Ovviamente anche questo aspetto ha la sua rilevanza fondamentale.

Ma se gli umani si sentono spesso una cosa sola con le parole, è soprattutto perché queste regalano il più intenso mezzo per trasportare al di fuori dell’animo tutto ciò che parrebbe insopportabile lasciare sacrificato a un tale isolamento.

L’atto del parlare non sa dire dunque soltanto “pane al pane e vino al vino”. Può arrivare a dire anche, ad esempio, “cuore al pane e vino al mondo”.

Questo accade nei dialoghi, nei pensieri e nelle scritture più straordinarie, quando le parole calano le loro reti in acque di maggiore profondità, al di sotto del pelo di superficie su cui galleggiano i significati diretti e comuni dei vocaboli, andando a pescare laggiù, vastità di senso inusitate.

Detto in altro modo: la parola sa essere non solo contenitore di informazioni, ma fortunatamente sa espandersi verso una duttilità poetica e una versatilità fantasiosa, che non possono trovarsi in nessun altro luogo se non nella dimensione della assoluta libertà creativa del pensiero. Con le parole facciamo affiorare le più intime componenti di noi stessi, quelle preziosità del sentire degne di andarsi a fondere con contributi simili, provenienti dalla sensibilità altrui. La parola è il contratto di solidarietà più intenso che due o più persone possano stipulare fra loro: in questa prospettiva la parola è il veicolo comunitario per eccellenza.

Cosa fanno, non a caso, due innamorati, quando sentono il linguaggio ordinario non più sufficiente a rendere conto dello straripare dei propri sentimenti?

Si inventano parole nuove, quelle adatte a tanta urgenza di raccontare, in modo che il senso di unione e di fusione reciproca venga reso vicendevolmente riconoscibile con un proprio gergo privato, espressioni “cifrate” che fissino nell’unicità del dire, quasi un escludersi dal resto del mondo, per rifondare il mondo nuovo e circoscritto della passione condivisa.

Qualcosa di simile accade anche in una piccola compagnia di amici, o in una famiglia, oppure in ogni altra forma di gruppo sociale più o meno numeroso: l’invenzione della parola, come potente strumento di affermazione della parte di mondo e di esistenza che si è orgogliosi di stare creando insieme.

Ed è questo in fondo lo stesso “meccanismo” alla base in particolare della formazione dei dialetti.

Parlare, ascoltare e intendersi in dialetto significa affermare: “…Io riconosco voi, certo, ma allo stesso tempo sento il modo in cui voi davvero mi capite…”.

Parlare un dialetto vuol dire scambiarsi fondamentali porzioni d’esperienze di mondo, che ciascun parlante sente quasi come avesse contribuito a rendere vere, battezzandole insieme alla comunità più o meno estesa di cui fa parte.

Tutte queste considerazioni si fanno interessanti e particolari, se tarate sul punto di vista, seppur minimale, di una realtà linguistica come quella del dialetto di Roccabianca, nel suo genere una sorta di unicum nell’ambito del panorama delle parlate locali parmensi.

Il dialetto di Roccabianca è unico per tre motivi principali: è espressione singolare di una specie di “enclave” linguistica dalle sfumature lombarde, in territorio emiliano; è conosciuto ormai da sole poche centinaia di parlanti; e infine, ma non ultima motivazione per importanza, nel suo storico semi-isolamento dettato dalle fattezze geografiche del luogo, Roccabianca è stata nel tempo fucina di originalità del parlare e di una vivacità semantica che val la pena di essere raccontata.

Se questi tratti peculiari sono stati purtroppo anche penalizzanti in ordine a mancate occasioni di sviluppo economico e territoriale, per altro verso hanno dato adito all’auto-generazione di una sorta di laboratorio linguistico di paese, nel quale la fantasia dell’isolamento dal mondo ha saputo spesso sfociare in una vera e propria originalità inimitabile delle caratteristiche espressive locali.

La particolarità nell’uso di certi suoni “rari”; l’insistere sulla conformazione di parole dalla pronuncia piuttosto ardua, ma a suo modo ricercata e dotata di una ritmicità di valore; la varietà espressiva ricca di coloriture e intensità, non di rado portatrici di guizzi di notevole originalità inventiva…sono questi gli ingredienti minuti che fanno del dialetto Roccabianchino un caso linguistico interessante da indagare.

Non è un caso se a Roccabianca, il linguaggio si sia amalgamato spesso alle vicende della quotidianità di paese, anche attraverso le figure di pittoreschi personaggi che nel motto di spirito, nell’arguzia del gioco di parole o persino nella brillantezza involontaria della creatività naif scaturita dallo strafalcione, hanno dato vita lungo la storia di questo piccolo posto, a un vero e proprio “habitat linguistico” dalla vivacità del tutto singolare.

Per tutte queste ragioni, siamo convinti che un “excursus narrativo” dedicato alla pur umile vicenda linguistica di Roccabianca (anche se per forza di cose ovviamente frammentario e ricostruito lungo la rievocazione di piccoli lampi estemporanei della memoria) possa risultare interessante non solo per chi ha già qualche familiarità con la realtà del piccolo paese della Bassa, ma anche per ogni appassionato della magia delle parole, della forza del linguaggio, della fascinazione della lettura.

Dialetto di Roccabianca – Ròcabianca

ROCCABIANCA Un paese da leggere in dialetto
Presentazione del Dialetto Roccabianchino di Angelo GIL Balocchi

La “fisionomia esistenziale” di un certo luogo è determinata in misura decisiva anche e soprattutto dal suo dialetto, non meno di quanto essa possa scaturire dalle caratteristiche geografiche, urbanistiche, storiche e ambientali in genere. Anzi, il dialetto non è soltanto l’indubbio testimone del formarsi storico di una comunità, ma ne è a suo modo uno dei “motori costruttivi”.
In questo senso, anche per il piccolo abitato di Roccabianca, le parole del dialetto da sempre qui parlato sono meritevoli di attenzione al pari di ciascun mattone della rocca, di ogni arcata dei portici di piazza Minozzi, di tutte le relazioni … LEGGI TUTTO

Il COMITATO DI ROCCAFIORITA


Il dialetto ad Ròcabianca di Angelo GIL Balocchi

Provvista di “enne” di gallina
Questa mattina sono andato in “suoneria” e ho fatto spesa. Per chi non lo sapesse, la suoneria è l’officina dove si producono i suoni usati nelle parole. Basta chiedere a Mastro Suonato e lui vi accontenta subito. Prende un megafono, urla dentro la fucina emettendo vocalizzi variegati, poi estrae una barra di materiale sonoro incandescente e comincia a batterla col martello sopra l’incudine.
Per fabbricare suoni speciali da usare nel dialetto di Roccabianca, Mastro Suonato indossa anche dei particolari occhialini graduati, che montano le … LEGGI TUTTO



“Le sette note” del parlar di Roccabianca di Angelo GIL Balocchi

Scrivere il dialetto non è un’impresa da poco.
Trattandosi di una lingua tramandata solamente a voce da una generazione all’altra, “in teoria” non esistono vere e proprie regole codificate, ufficiali, per trasportare le sue parole, nero su bianco, sopra la pagina di un libro.
Questo è tanto più vero, nel caso di un dialetto come quello di Roccabianca, che potremmo definire “minore”, non certo perché manchi di “nobiltà linguistica” e di pregio culturale, (ingredienti innegabilmente custoditi anche in un idioma così umile come quello Roccabianchino), ma solo per il fatto di essere stato par lato nel tempo, e di esserlo tuttora, da… LEGGI TUTTO


Detti proverbiali e modi di dire in dialetto Roccabianchino di Enzo Gotelli

Spesso è risultato difficile distinguere tra ciò che è peculiare del “Dialetto Roccabianchino” e ciò che può rientrare in una più vasta area emiliana (non solo parmense). A volte sicuramente, ci sono detti proverbiali e modi di dire che saremmo portati a considerare come nostro esclusivo retaggio, mentre forse rientrano in una prospettiva territoriale più ampia, vale a dire che “spesso” non provengono dalla viva voce del popolo.
E pertanto, ai miei affezionati venticinque lettori, non posso che dire che solo il tempo potrà svelare la verità: “veritas filia temporis (la verità è figlia del tempo).

Ma al di là di questa mia piccola digressione, sono convinto che il “Dialetto” non solo non è morto, ma serve a capire chi siamo! Il nostro “Dialetto” non può essere pericolosamente autoliquidato come si fa per ciò che riteniamo “ingombrante” per il nostro sapere, per la nostra conoscenza. Niente di più sbagliato! La tutela del “Dialetto” rappresenta la tutela del patrimonio linguistico, elemento chiave per la conservazione dell’identità dei popoli.
Non si può, quasi con malcelato compiacimento, “dichiarare morto un qualcosa che ancora vive”.


I Roccabianchini  devono coltivare ancora il “loro DIaletto”, perché “nulla è più moderno che recuperare la coscienza identitaria”. Sapere chi siamo è la discriminante per vivere questo secolo!
Ecco due imperativi categorici: “Sapere chi siamo!” e “Recuperare la coscienza identitaria!”.
Dobbiamo continuare a coltivare “il nostro dialetto” (assieme alla nostra Storia, alla nostra Cultura) per perseguire gli obiettivi di cui sopra!


“Al nòstar dialàt l’às pöl iütà!”

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Tavolozza dialettale di Angelo GIL Balocchi

Uno degli aspetti più belli di ogni dialetto sta nella coloritura delle parole.
In particolare, da quello di Roccabianca a volte saltano fuori a sorpresa certi termini che, mescolando suono e significato, si arricchiscono di una carica di rozzezza, melodia e poesia popolare, talmente intense da risultare quasi irresistibili.
Una cosa sempre stupefacente del dialetto è che contiene facilmente un filo di ironia (e spesso un intero gomitolo). Sia nelle sonorità, sia nei riferimenti suggeriti o sottintesi. Anzi, direi che il dialetto è una lingua ironica per natura. Difficile non sorridere, pronunciando alcune frasi o espressioni. Questo fa pensare a una certa forma di saggezza spontanea. I nostri vecchi, vivendo spesso… LEGGI TUTTO


SETTE storielle che sanno di dialetto di Angelo GIL Balocchi

Come nella miglior tradizione di ogni pranzo che si rispetti, dopo le laute portate narrative servite con simpatia, affetto e buonumore da Enzino Gotelli, vogliate gradire a questo punto sette storielle confezionate da Angelo Balocchi, a mo’ di dolcetto conclusivo (leggibili anche come caffè e ammazzacaffè dal sapor dialettale!).
Revisionando per l’occasione questa serie di sei brevi racconti, è venuta a galla (un po’ come accade per le “epifanie ponghésche”, in alcune delle storie che leggerete) una controprova di certe caratteristiche del tutto specifiche del dialetto.
I racconti in origine erano nati in italiano, e così erano stati scritti.

Si è deciso però, quasi in via sperimentale, di tentare… LEGGI TUTTO


CLARETTA FERRARINI

CLARETTA FERRARINI La vernacolista fidentina innamorata di Borgo San Donnino, èl sò Burägh.

La fidentina Claretta Ferrarini, nominata membro del Comitato scientifico per la salvaguardia, la valorizzazione e la trasmissione dei dialetti dell’Emilia-Romagna, è nota nel parmense, e non solo, per essere da anni tra i protagonisti della cultura dialettale.

La Claretta è una scrittrice vernacolista, da sempre cultrice del dialetto ma anche in generale di usi, costumi, folklore e cucina tradizionale di Fidenza. Ha scritto sei libri in dialetto, compresa la traduzione delle Sacre Scritture, allo scopo di  dare dignità letteraria al dialetto parmigiano. Madre di quattro figli e nonna di tre nipoti, da oltre 20 anni fa attività di divulgazione gratuitamente attraverso le radio locali, lezioni a scuola, conferenze e recital.

Il Comitato – al quale Ferrarini è stata candidata dal Comune di Fidenza – è un organismo previsto dalla legge regionale numero 16 del 2014, composto da 11 membri di comprovata competenza, rappresentanti tutto il territorio e scelti dalla Giunta emiliano-romagnola tra le candidature arrivate attraverso un avviso pubblico.

Nasce a Fidenza ove trascorre l’infanzia in una famiglia che le impedisce di parlare il dialetto, normalmente utilizzato da tutti salvo che con lei. Fortunatamente una zia, che parla un dialetto “dottissimo”, l’inizia di nascosto al vernacolo, ponendo le basi di una passione per la lingua parlata a Büragh che nel 2016 sfocerà nella pubblicazione del notevole Dizionario Etimologico Borghigiano.

Nel corso degli anni l’amore per il dialetto l’ha portata ad impegnarsi in un seguito programma radiofonico presso una radio locale e a collaborare, dal 1982, con le scuole dell’infanzia, elementari e medie fidentine per introdurre il dialetto in classe curando diversi progetti didattici.
Per la sua Fidenza partecipa e organizza convegni e simposi in veste di relatore ed insegnante del dialetto borghigiano per conto delle varie associazioni culturali fidentine.

Fonda nel 2005 l’”Accademia dal Rumäl» per sancire le modalità del dialetto borghigiano.
Nel 2012 riceve la cittadinanza benemerita da parte della Città di Fidenza per l’opera culturale svolta nel corso di tanti anni «a testimonianza del vivo apprezzamento per l’ingegnosa, originale e diversificata opera di sollecitazione culturale» del dialetto fidentino. Molto attiva su Facebook, tiene dal 2014 due rubriche: una di diffusione dei termini dialettali borghigiani, “L’ Accademia del Rumäl”, l’altra di racconti brevi in dialetto, a Väjön par Burägh”.

L’uomo ha bisogno di appartenere

Il DEB, Dizionario Etimologico Borghigiano

è indubbiamente il lavoro più importante della Claretta. Frutto dell’esperienza maturata in una vita e di una paziente costante dedizione, rappresenta una pietra miliare nell’ambito del dialetto e della cultura del nostro territorio, non solo borghigiano.


Un’eredità che lascia soprattutto ai giovani e giovanissimi, per i quali tante energie ha speso nel corso della sua vita per trasmettere loro quel senso di comunità che rende meno greve il tratto della propria esistenza.


A fianco sono riportate brevi notizie rese in modo semplice affinché ne siano interessati anche i giovanissimi.

BIBLIOGRAFIA

La Bon’na Növa, Èl tribüleri del Prim Ciòpp äd Cristiàn, I quattro Vangeli e gli atti degli apostoli, Comune di Fidenza, 2005

Èl cüciär d’Utón, La cucina povera borghigiana, Quaderni Fidentini, 2007

Èl cüciär d’Ôr, La cucina ricca borghigiana, Quaderni Fidentini, 2008

…Sì, tò surèlla cävala a ‘n Òppi!, Modi di dire ed altre espressioni in dialetto borghigiano, Quaderni Fidentini, 2009

Genesi Èl prinsìpi äd tütt èl ròbi, La Bibbia in diälött Burghzàn, La bibbia in dialetto Fidentino, 2012

DEB Dizionario Etimologico Borghigiano, Circa 3000 lemmi del dialetto intramurario di Fidenza, Fidenz@ Cultura, 2016

A väjön par Burägh, Rubrica periodica di racconti in dialetto sulla pagina Facebook “Non sei di Fidenza se…..”, dal 2014

RINO MONTANARI

RINO MONTANARI, lo spirito allegro dal Burägh

Nato a Diolo di Soragna ma trasferitosi fin giovane età a Fidenza, ha vissuto per anni da protagonista la vita dal Burägh. Zio della nota vernacolista borghigiana Claretta Ferrarini, fu reduce della tremenda campagna di Russia, uno dei pochi sopravvissuti. “Dal 1943 al 1945 dovette anche fare i conti con la villeggiatura assai poco umoristica in un campo di concentramento tedesco in Polonia” (da Fidenza sorride con Montanari). Nonostante gli stenti patiti e le terribili esperienze che dovette attraversare, mostrava sempre il lato più sereno del suo carattere aperto, generoso e divertente, celando nell’intimo quei ricordi che, oscuri, a lungo lo accompagnarono.

Fin da piccolo si mostrò abilissimo nel maneggiare matite e pennelli, una dote che affinò negli anni diventando “umorista di valore, testimone arguto del suo tempo, dei personaggi e della vita della sua città. (…) Testimone di satira del costume, si apriva sempre al sorriso in un mondo spesso chiuso nelle barriere dell’odio e della follia quotidiana”, com’ebbe a scrivere Bruno Rabaiotti nella prefazione a Fidenza sorride con Montanari, Quaderni Fidentini, n° 17, 1981. Le oltre 220 pagine del volume sono solo una piccola selezione della sterminata produzione di Montanari: cliccando qui si può accedere a un piccolo estratto.

“Come Guareschi traeva dal vero gli spunti per i suoi racconti così lui insieme agli altri autori che si sono avvicendati negli anni nella stesura di quel fogliaccio fidentino conosciuto come il Numero Unico ha raccontato con ironia i fatti del Borgo” (Gianandrea Bianchi, Associazione Lepidus, 2017). Stimato e amato dai suoi concittadini, Rino è stato senza dubbio uno degli interpreti più amati e rappresentativi della vita Fidentina, cogliendone con la sua copiosa produzione tutti gli aspetti.

Un modo che la sua comunità si è inventata per rinnovarne il grato ricordo si deve ai membri dell’ Associazione Lepidus. Hanno infatti istituito, all’interno del loro World Humor Awards, il concorso internazionale dell’umorismo che si tiene dal 2016, il premio speciale Rino Montanari da assegnare annualmente a un vignettista o caricaturista italiano. Difficile trovare un metodo migliore per ricordare quell’umorista, quell’uomo, buono, che tanto diede alla sua Città.

VITTORIO CHIAPPONI

VITTORIO CHIAPPONI Lo straborghigiano a 24 carati

Il geometra fidentino al secolo Vitòri Ciapón era l’archivio delle cose fidentine, conoscitore della città sopra e sotto (i meandri sotterranei per lui non avevano segreti ), diligente raccoglitore delle vicende locali nei suoi volumi Quaderni Fidentini. Un corposo carattere sereno fatto per l’amicizia, una sottile debolezza per le lusinghe culinarie, una non sopita passione per le galoppate in bici, l’incapacità di dire di no a chi aveva bisogno di lui” Così lo descrive RINO MONTANARI, apprezzato disegnatore umoristico fidentino, in Fidenza sorride con Montanari nel 1981. Indimenticato protagonista delle vicende cittadine, nel 2016 la sia Città ha dedicato alla sua memoria il “Mese del dialetto” (vedi Fidenza blog e il ricordo del nipote Giovanni per zio Vittorio, video).

Cultore del dialetto borghigiano, ha scritto tre importanti testi per la collana Quaderni Fidentini: BURÄGH, ovverosia Borgosandonnino tra cronaca e costume, del 1977, e BURÄGH DÜ, del 1980.

Nel 1990 esce finalmente, il n° 39 della serie quaderni Fidentini PARLÄR BURGZÀN Parole e frasi del dialetto di Borgo S. Donnino – Fidenza catturate per i posteri, scritto con Temistocle Corradi e copertina di Rino Montanari. Si tratta di una raccolta di circa 1.000 vocaboli, frasi e modi espressivi in dialetto fidentino. Gli autori sottolineano che, senza nessuna pretesa scientifica, si tratta di un manuale di prima consultazione e di avvio allo studio del vernacolo borghigiano (pagina esempio). Oltre ai vocaboli fu dato spazio ad espressioni gergali e a pittoreschi modi di dire, aiutati nella ricerca da un vivace clan di fidentini veraci.

All’interessante e spesso divertente volume era allegato un’audiocassetta ad integrazione orale ed esemplificativa della grafia adottata, un’ ottima documentazione della parlata borghigiana, declamata in uno splendido dialetto proprio da Vittorio Chiapponi. La voce femminile che traduce la frase in italiano è di Angela Pietrantoni, mentre il disegno di copertina è di Rino Montanari. La registrazione fu «fatta in casa da G.V.». Tale documento, già pregevole per l’epoca, rappresenta una preziosissima documentazione di cadenze e accenti fidentini che ormai, come d’altronde in quasi tutte le parti d’Italia, vanno perdendosi «nell’inarrestabile dissolversi di una tradizione dialettale così vivacemente espressiva», sfumando spesso in un anonimo italiano regionale senz’anima. (Andrea Mondini)

Ringraziamo sentitamente il figlio di Chiapponi, Gian Vittorio, per averci concesso la possibilità di rendere pubblico e divulgare, soprattutto a favore dei giovani, questo raro ed eccezionale documento. Un grazie anche al nipote Giovanni Chiapponi per l’aiuto prestato.


Ecco le due registrazioni, di circa 25′ cadauna. Buon ascolto, e, anche, buon divertimento.

PARLÄR BURGZÀN parte prima, lato A

PARLÄR BURGZÀN parte seconda, lato B